Ciao Marcello

Solo pochi giorni sono passati dal ricordo di Paolo Tranchina, pubblicato su queste pagine.
Ora mi ritrovo alle prese con un altro ricordo, altrettanto doloroso, e non solo per la perdita di un amico, che di per sé è un evento che lascia il segno, ma per la percezione che, con le persone che se ne vanno, persone tutte che hanno lasciato una forte impronta, una fase della nostra storia si sta chiudendo, e ciò che ci sta davanti appare piuttosto incerto.

Il dolore induce ai ricordi, soprattutto ai ricordi delle relazioni personali, degli eventi comuni della nostra vita.
Il che può essere importante, per far sì che la persona che ci ha lasciati non sia soltanto quella pubblica, quella che crediamo di conoscere, l’idea che di quella persona ci siamo fatti, ma la persona che veramente era.
E niente, come il ricordo della quotidianità, come il ricordo dei sentimenti, sembra garantire ciò.

Ho scritto in questo modo per Sergio Piro e per Paolo Tranchina, e credo che sia stato giusto, per evitare la banale riduzione di persone così importanti e autentiche a stereotipi culturali, o politici.
Ma, per Marcello, credo che sarà necessaria una operazione opposta.

Era così ricco di umanità, di sentimenti positivi (anche le sue spinosità caratteriali finivano per essere sentimenti positivi), di empatia, da stimolare, nel ricordo dei più, proprio questo aspetto: basterebbe leggere cosa hanno scritto in tanti sui social, da Massimo Casacchia ai più giovani tra i suoi specializzandi.
E anch’io ne avrei tante di storie da narrare, dal ricordo del nostro primo incontro, presso la Clinica di Malattie Nervose e Mentali di Siena, al nostro ritrovarci, tanti anni dopo, in Puglia.

Se questa rivista esiste –e prima ancora il convegno omonimo che si teneva biennalmente a Otranto- è stato grazie a Marcello, che per la prima edizione del convegno, nel 1998, mi mise in condizione di schierare non il solito grande nome fornito da una azienda farmaceutica, più la consueta folla di personaggi locali, ma un autentico parterre de roi: Smeraldi, Carta, Scapicchio, Ballerini, etc.

Persone che magari conoscevo, ma che, da solo, non avrei mai convinto a venire a Otranto, alla fine di novembre, e non una sola volta, ma anche negli anni a venire.E poi, nei miei momenti d’ira o di sconforto, mi aiutava la sua indicazione, nel linguaggio dei marinai genovesi, a proseguire con calma e sapienza “bordesando, bordesando”.
Ma, poiché in tanti hanno voluto sommare ricordi di tal tipo, ricordi personali e affettuosi, vorrei ricordarvi l’altro Marcello: quello, diciamo così, pubblico.

Ho sempre detto che, quando Marcello Nardini venne alla Clinica Psichiatrica di Bari, la psichiatria pugliese era nelle stesse condizioni delle campagne di questa regione.
Così come una certa inerzia, unita a furbizia miope, avevano impoverito le campagne con le monoculture (il tabacco prima, gli ulivi poi), perché era più facile, e poi si rimediavano i soldi delle integrazioni, la psichiatria pugliese era soffocata da una monocultura, un pensiero unico.

E il pensiero unico, anche se di elevato livello, non fa mai bene.
In Puglia questo pensiero unico aveva prodotto molti e gravi danni: perdita di radici culturali, assenza di conoscenze di base, mancanza di uno stile di lavoro, incapacità di elaborare progetti originali.
Si oscillava tra il più piatto dei conformismi e tirate pseudo rivoluzionarie: con una perfetta intercambiabilità di ruoli.

Credo che molti ricordino ancora l’apparente spadroneggiare, nei corridoi dell’assessorato regionale, di alcuni colleghi autodenominati democratici, e la loro serena coesistenza con i residui manicomiali prima, con l’inerzia organizzativa poi.
E dappertutto era un fiorire di approcci sistemico-relazionali, la cui utilità nei servizi, che dovevano vincere la sfida con la cultura manicomiale, era a dir poco pleonastica.

Credo che, nei primi tempi in Puglia, in molti abbiano provato a tirare Marcello per la giacchetta, come si suol dire: chi per garantirsi il mantenimento dello statu quo, chi per veloci rivoluzioni, che, alle volte, sapevano tanto di regolamento di conti.
La sua abilità fu quella di non farsi tirare da nessuna parte, mantenendo apparenti buone relazioni con (quasi) tutti, ma facendo subito percepire che nella sua testa c’era un progetto. E quando il progetto cominciò a delinearsi, e apparve vincente, accettò con pazienza la corsa di tanti desiderosi di correre sul carro del vincitore, ma sapendo, dentro di sé, quando e perché poteva fidarsi, e quando invece no.

Ma, in tal modo, incentivò una cosa che, nella tradizione pugliese, appariva di una novità dirompente: la voglia di arricchire le conoscenze, di ritrovare le radici (quante volte abbiamo parlato della psicopatologia, ridotta a cenerentola nella formazione dei giovani psichiatri !), di diversificare gli ambiti di intervento, di modularli sui cambiamenti sociali e culturali del nostro territorio.

Così, lentamente, la psichiatria pugliese smise di essere un’appendice pleonastica nel quadro generale, trovando sue specifiche aree di sapere e di fare: per tutte, ricordo le ricerche sui fenomeni migratori, che avevano investito la nostra regione prima di tante altre. Magari ricerche a volte un po’ empiriche, ma che marcavano la voglia di una identità culturale. E anche la presenza degli psichiatri pugliesi nelle istituzioni scientifiche nazionali: non una semplice voglia di piccoli poteri personali, ma l’immagine di un movimento che stava crescendo.

Se il grande lavoro di Marcello non ha, alla fine, prodotto tutti i cambiamenti voluti e possibili, credo che la responsabilità sia della miopia di una classe politica pugliese (di varie coloriture) sempre pronta a circondarsi di yes men senza idee, e sempre timorosa di confrontarsi con chi, nello specifico, potrebbe avere più idee, altre soluzioni.
Ma questa è un’altra storia: per la psichiatria pugliese Marcello ha avuto l’effetto benefico di una abbondante pioggia settembrina, dopo lunghi mesi di siccità.
Ora dovrebbe stare a chi gli è stato vicino, a chi si è arricchito delle sue idee, mantenere vivo un progetto, continuare un percorso.

Quando Marcello venne a Bari, da Siena, molti all’inizio volevano percepirlo come un corpo estraneo.
Una volta mi disse “Mi chiamano il toscano, ma secondo me il vero toscano sei tu, che c’hai la mentalità e la dialettica toscana. Io sono e resto nel profondo un ligure, ma disposto a diventare barese”.
A distanza di tanti anni credo che il suo progetto si sia realizzato: mantenendo tutte le sue radici, Marcello era diventato l’anima e il motore della rinascita di un movimento culturale e scientifico.

Quelle che seguono sono parole sue, nell’articolo “Dialogo sulla psichiatria e sulla sua identità” pubblicato su questa rivista in occasione del trentennale della 180:

E’ giunto il momento di concludere questo mio “girovagare” nei meandri e nel labirinto della mente e dell’esistenza umana e della storia dell’uomo e delle istituzioni; mi auguro di aver contribuito ad individuare il “filo di Arianna” per poterne uscire; se così non fosse, accettate questo mio scritto come un esercizio personale del tutto estetico.Nel mio animo alberga un sentimento di soddisfazione, nella speranza di aver sostituito al paradigma della guarigione sociale della persona con malattia mentale quello della guarigione clinica della malattia mentale: solo così la persona non avrà più necessità di essere “riabilitata” e “riconsegnata” – abile ed abilitata – alla società civile, ma solo di “farsi abile” all’esistenza personale e soggettiva! In questo mio dire c’è un cambio di paradigma: dal curare la malattia e riconsegnare il soggetto sano alla società civile occorre passare alla prospettiva di produrre salute nei singoli e nei cittadini anche – e non esclusivamente – curando e “sanando” la malattia. E’ la grande “sfida” (quasi utopica ma per me possibile) della moderna medicina di comunità e sociale, al cui interno la psichiatria è ricompressa. In questo processo a nessuno è concesso di “tirarsi fuori”, ognuno è coinvolto. La società e le sue articolazioni sono coinvolte, è inevitabile.
Auguriamoci che tutto ciò non venga sprecato, o dimenticato, in un rigurgito di nostri vizi antichi.

Ciao Marcello, e anche a te, come dico sempre in queste tristi circostanze, sia lieve la terra.

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